Il Fotoreporter

Una domenica mattina, durante il periodo in cui mi trovavo in Nigeria, venni avvertito via radio che un fotoreporter, inviato espressamente da Roma, sarebbe giunto a Warri per scattare alcune foto sui nostri rilievi sismici. Avvertii di questa visita il capo del Gruppo sismico operante nella concessione più vicina a Warri e lo pregai di predisporre i lavori in una zona facilmente accessibile, per evitare al fotoreporter il disagio di doversi inoltrare nell’interno della jungla allagata. Al suo arrivo in cantiere, il fotoreporter  rimase colpito dall’ambiente così selvaggio e primitivo. Il giorno dopo, durante il viaggio sulla motobarca che ci conduceva nella zona operativa, continuò a scattare fotografie in ogni dove, cercando di inquadrare i poveri villaggi composti perlopiù da baracche costruite sull’acqua. Ne approfittai per spiegargli che le nostre operazioni si svolgevano proprio nell’interno di quelle foreste che lui stava fotografando con tanto interesse. Ritenei inoltre opportuno avvertirlo che inoltrarsi in quelle foreste poteva presentare qualche difficoltà per chi, come lui, non era abituato a farlo. Mi rispose, con un certo sussiego, che lui, dietro l’obbiettivo di una macchina fotografica, era in grado di recarsi ovunque. Giunti a destinazione ancorammo il natante e ci predisponemmo per entrare nella palude.

Mi ero già infilato le solite scarpe da tennis, le uniche che consentivano a quei tempi di camminare sui “ponteggi”, ovvero pezzi di tronchi di 5/10 cm di diametro allineati e bloccati con pezzi di tronco più piccoli infissi nel fondo melmoso, semisommersi nell’acqua stagnante. Avevo naturalmente indossato i calzoncini corti, con i quali potevo entrare ed uscire facilmente dall’acqua.

Il capo gruppo, proprio per favorire il fotoreporter, aveva predisposto i lavori di rilievo sismico abbastanza vicini al campo. Si doveva camminare solo per una decina di minuti, vale a dire niente in confronto alle marce estenuanti alle quali tutti noi eravamo abituati.

Mi inoltrai nella foresta, seguendo il responsabile che si era messo prontamente in cammino. Dopo alcuni minuti mi volsi per parlare con il fotoreporter, ma con mia sorpresa mi accorsi che non ci stava seguendo. Ritornai sui miei passi e vidi che l’inviato non si era assolutamente mosso dal punto di partenza. Gli chiesi come mai non ci avesse seguiti e lui, per tutta risposta, disse che in quella jungla non sarebbe entrato nemmeno se gli avessero offerto un milione di lire per ogni passo percorso. Decidemmo allora di cambiare la disposizione degli uomini addetti alle operazioni di rilievo, spostandoli nelle immediate vicinanze del fotoreporter, in modo che potesse scattare le sue foto.

Evidentemente in quella circostanza il fatto di avere un obbiettivo fotografico davanti ai propri occhi non era valso a dargli il coraggio necessario per inoltrarsi nella jungla, nemmeno per pochi metri. Mentre tentavo di distaccare, usando la brace di una sigaretta, la sanguisuga che durante il breve percorso fatto nell’acqua putrida, si era voracemente conficcata nella parte interna della coscia sinistra, dentro me pensavo che, in fondo in fondo, quel uomo non avesse poi tutti i torti. Al mio ritorno in patria vidi le sue foto riprodotte in numerose riviste. Mi dissero che erano state esposte anche in alcune mostre internazionali, compresa quella di Mosca.

di Virgilio Asso